Con la scoperta dell’America e lo sviluppo della grande navigazione oceanica si apre una nuova fase nella evoluzione della marineria, con l’apparizione di nuovi tipi di navi e la diffusione delle armi da fuoco, che porta alla sistemazione di artiglierie non più limitate a sparare nella direzione del moto ma piazzate soprattutto sulle fiancate.
Per la navigazione mediterranea nascono a Venezia piccole unità derivanti dalla galea, quali il brigantino, unità veloce per servizi di scorta e di trasporto, la galeotta, la fusta, la fregata, per giungere alla galeazza, grossa nave da guerra propulsa prevalentemente a vela ed armata di numerosi pezzi di artiglieria sui fianchi, i quali erano in grado di lanciare palle metalliche divise in due semisfere collegate da catena, tali da agganciare ed abbattere gli alberi delle navi avversarie: lunga circa 50 metri e larga 8, nasce in Arsenale nel 1569, nella cosiddetta Vasca delle Galeazze, all’angolo di nord-est dello stabilimento, nel numero di sei esemplari, all’interno di capannoni di nuova costruzione di dimensioni adeguatamente maggiori di quelle consuete, dagli arsenalotti denominati per la loro forma gaggiandre, cioè tartarughe.
La nuova unità fece il suo esordio nella battaglia di Lepanto all’imboccatura del golfo di Corinto, nel 1571, nel corso della guerra di Cipro, assediata dai turchi e difesa da Marcantonio Bragadin, che fu scontro tra le flotte della Lega Santa, formata dalle navi di Venezia e di numerosi Stati cristiani (al comando di Don Giovanni d’Austria), e quella dell’impero ottomano, comandata da Alì Pascià. L’intervento delle galeazze fu determinante per il risultato del combattimento, appunto per la caratteristica del loro armamento: la battaglia di Lepanto fu dunque la prima grande vittoria cristiana contro l’impero ottomano, seppure ad essa non sia seguita una svolta nella politica dei due schieramenti, anche per le discordie in campo cristiano, per cui le conquiste musulmane, dopo una breve stasi, non si arrestarono e giunsero nel secolo successivo alle porte di Vienna.
La galeazza, la cui costruzione non ebbe molto seguito a causa delle caratteristiche piuttosto pesanti e poco manovriere dell’unità, rappresenta forse l’ultima applicazione del criterio che sino ad allora aveva informato le menti degli strateghi mediterranei, veneziani in particolare, che la guerra marittima dovesse necessariamente essere esercitata con unità propulse dal remo: in realtà, con l’avvento delle navigazioni atlantiche, durante le quali il mare superava spesso i limiti del moto ondoso temporalesco da considerarsi normali in un bacino piuttosto chiuso come era il mediterraneo, il veliero veniva ormai considerato inevitabile anche per scopi militari. Si ebbe così il passaggio dalla galea al galeone, suo vero successore e principale componente delle flotte europee a partire dalla fine del ’500, quale veliero più agile della caracca e della cocca e contemporaneamente in grado di reggere un armamento guerresco più sviluppato rispetto alla caravella.
Il galeone, lungo sino ad oltre 40 metri, largo sino a 10, ed alto 4 o 5 metri, su più ordini di ponti (generalmente due), disponeva a prora di un albero semi orizzontale, il bompresso, sul quale era impostata una vela, la civada, talora sormontata da altra detta controcivada; sugli altri tre alberi di cui era generalmente munito si issavano vele quadre, in numero di tre sull’albero di trinchetto (prodiero) e di maestra, mentre l’albero di mezzana (poppiero) era normalmente armato con una vela latina, triangolare; sui galeoni di maggiori dimensioni poteva esistere un quarto albero verticale (di contromezzana) ad estrema poppa, armato con vela latina.
Alle estremità longitudinali della nave esistevano sovrastrutture molto sviluppate in altezza, generalmente in più ponti, ed a prora estrema poteva esistere la polena, figura allegorica in genere femminile, scolpita in legno. La sovrastruttura prodiera (cassero, o castello) disponeva di cannoncini su uno o due ordini di ponte, ma quello maggiormente armato era il ponte di batteria, sottostante alla coperta, dal cui interponte si affacciavano alla fiancata le bocche da fuoco, sino a 25 colubrine (calibro di 133 mm) su ciascun fianco, oltre a cannoni di minor calibro sistemabili sul ponte di coperta. Si abbia però presente che l’efficienza dell’artiglieria era piuttosto limitata nella gittata e precisione di tiro, per cui anche le scariche di numerose bocche da fuoco contemporanee difficilmente creavano danni estremi alle strutture di robusto legno di quercia da cui erano costituite le fiancate delle navi. Nella sovrastruttura poppiera trovavansi il locale di riparo per il timoniere e gli alloggi per gli ufficiali; la marineria (sino a 300 persone) era alloggiata alla rinfusa sul secondo ponte.
A dimostrazione della maggior efficienza del galeone rispetto alle precedenti caracche, si abbia presente che mentre queste erano tenute a non allontanarsi dalla costa oltre quanto consentisse loro, con favore del vento, di rientrare alla base nell’arco di una giornata, i galeoni potevano rimanere a mare anche per mesi interi, essendo debitamente progettati per la navigazione oceanica. Con ciò cambiava anche la tecnica della guerra marittima, poiché la grande autonomia non teneva più legata l’unità al contatto con la terra per i necessari rifornimenti di viveri ed acqua, e la nave, in grado di manovrare abbastanza agevolmente anche a vela per effetto del perfezionato impiego di questa, poteva disporsi in battaglia in posizione tale da mostrare non più un solo fianco al nemico, ma in modo da utilizzare i cannoni disposti su entrambe le fiancate. Verso la metà del XVII secolo fu adottata dall’Ammiragliato inglese questa nuova formazione di battaglia (intesa pure a proteggere dall’artiglieria la poppa della nave, ove anche un solo colpo di cannone avrebbe potuto mettere l’unità fuori combattimento con la distruzione del timone), trasformando lo scontro non più in tentativi di abbordaggio ma in bordate di artiglieria contro l’integrità dello scafo e la solidità dell’alberatura.
Nella costruzione la pratica più spesso adottata era quella di realizzare una prima nave secondo le nuove concezioni, per verificarne l’idoneità ed ottenerne una perfetta messa a punto prima di passare alla costruzione di una numerosa serie di scafi migliorati. Del resto l’architettura navale, per quanto concerneva sia la struttura sia le forme di carena, non aveva fatto decisivi passi in avanti da Archimede in poi, durante i bui anni del medio evo, e soltanto verso la fine del XVII secolo cominciano ad apparire le prime pubblicazioni scientifiche su tali argomenti, procedendosi alle prime azioni sperimentali anche nello studio su modelli di scafo a grandezza limitata.
Per Venezia questo significò abbandonare vecchie tradizioni per adottare procedimenti di costruzione assimilati dall’estero, fruendo anche dell’acquisto o del noleggio dall’Inghilterra o dall’Olanda di unità di recente concezione, ciò che avvenne in particolare quando, verso la fine del ‘600, il galeone cedette il passo al vascello, unità da guerra a vela che divenne la principale nave da battaglia. Il vascello veneziano continuò comunque ad avere una sua particolarità rispetto alle unità costruite dai paesi dell’area atlantica (fondo più piatto, forme di carena meno affinate, chiglia poco sporgente dal fondo) per garantirsi un minor pescaggio nelle acque poco profonde più spesso praticate, ciò che lo penalizzava in velocità e stabilità. Ricorderemo a questo riguardo perché peculiare attrezzatura veneziana, il cammello, attrezzatura costituita da cassoni allagabili ed esauribili a mezzo pompe in misura diversa a seconda della spinta verso l’alto che dovevano assicurare quando venivano collegati mediante travi passanti attraverso lo scafo di una nave di pescaggio eccessivo, che doveva essere sollevata per consentirle di transitare su bassi fondali.
Il vascello, di ideazione olandese del XVII secolo rapidamente estesasi alle flotte dei concorrenti marittimi più qualificati (inglesi, francesi, spagnoli) innovò totalmente la costruzione della nave da battaglia per quanto concerneva sia le dimensioni che l’attrezzatura e l’armamento: in linea generale si può dire che spesso trattavasi di unità realizzate con doppio fasciame di legno (sino ad uno spessore di oltre mezzo metro) e doppia costolatura per raggiungere robustezza mai ottenuta prima, munite di tre o quattro alberi verticali più il bompresso (albero sub-orizzontale) a prora estrema, velatura quadra con vele triangolari nelle zone più alte e nei fiocchi e controfiocchi del bompresso, con le prime applicazioni della vela aurica (vela trapezoidale a poppavia di un albero, sorretta superiormente da un pennone ed inferiormente dal boma).
Tenuto conto della diversa concezione con cui le diverse nazioni realizzarono, in tempi diversi, questo tipo di nave, non è significativo fornire dati dimensionali medi, ma è maggiormente indicativo far rilevare che le dimensioni variarono dai piccoli vascelli realizzati con lunghezza e larghezza dell’ordine dei metri 30 x 8, agli scafi maggiori da metri 64 x 17,50 , alti 11 metri e pescanti sino ad oltre 8 metri; il dislocamento (cioè il peso, da non confondere con la stazza) di ciascuna unità giunse a variare da poche centinaia sino ad oltre 5000 tonnellate.
In assenza di vernici protettive contro la voracità della teredine (il mollusco vermiforme presente in acque salmastre e che attacca il legno dello scafo) l’opera viva (parte dello scafo che rimane prevalentemente immersa) veniva protetta con strati di catrame e tavolame destinato alla distruzione, sino a che (verso lo scadere del XVIII secolo) non si giunse al rivestimento della carena con una sottile lastra di rame.
Tra le innovazioni tecnologiche significative è d’uopo citare l’adozione della ruota in sostituzione della barra per la manovra del timone all’estrema poppa. Questa ripeteva la forma quadrata delle galee e dei galeoni, sino a che (ma siamo ormai agli albori del XIX secolo) non venne adottata in Inghilterra la forma tondeggiante, meglio adatta all’idrodinamica navale ed anche di più semplice costruzione. Innovazione tecnologica di pregio fu anche la sistemazione in corrispondenza dei pennoni degli alberi dei cosiddetti marciapiedi, ossia cavi correnti orizzontalmente su cui i marinai potevano appoggiare i piedi durante le rischiose manovre di modifica della velatura in opera. Le decorazioni ed abbellimenti scultorei delle navi, in un primo momento molto abbondanti, furono via via abbandonati per giungere all’età moderna con la sola permanenza della polena, figura allegorica adagiata sulla ruota di prora, che nelle navi veneziane era in genere costituita dal classico leone.