La navigazione lagunare tipica si sviluppò nelle zone costiere dell’alto Adriatico, nei secoli V, VI d.C., in esito al rifugiarsi sulle isole di quelle acque da parte delle popolazioni delle cittadine della zona, per sfuggire alla calata delle genti barbariche che avevano preso il sopravvento con il crollo dell’impero romano. Erede delle marinerie romana e bizantina, da cui apprese le tecniche costruttive, la marina veneziana assurse alla massima potenza commerciale, appoggiata alla forza militare che consentì a Venezia di opporsi alla soverchiante potenza dell’Impero ottomano, a partire dal termine del IX sino al XVIII secolo, quando il trattato di Campoformido consegnò la repubblica Serenissima al potere austriaco. Per l’uso lagunare, i canali stretti e la scarsa profondità delle acque diedero origine alla costruzione di barche idonee alla possibile navigazione, cioè con fondo piatto e senza chiglia sporgente sul fasciame esterno, predisposte per la voga da parte di una sola persona. Molti dei tipi di barche lagunari, tutte costruite in legno, si sono perpetrati nei secoli e daremo di alcuni di essi qualche nozione sulle particolarità.
Il “topo” e la similare “topa” hanno lunghezza compresa tra i 6 e gli 11 metri, con ponte esteso anche a tutta la lunghezza dell’unità, ed utilizzazione per la pesca o per i trasporti di piccola entità; di forme slanciate, con timone poppiero ed un albero idoneo per la vela al terzo ed anche ad alzare il fiocco, per la navigazione a remi in laguna era attrezzato con due o quattro forcole (nome veneziano per i caratteristici scalmi).
La “sanpierota”, che deriva il nome dalla località di San Pietro in Volta ove dovrebbe essere nata, di lunghezza generalmente compresa tra i 6 ed i 7 metri, è una barca che si presta all’uso familiare ed anche alla pesca; può essere dotata di una o due vele al terzo.
Il “puparin”, distinto anche come “sandolo”, di lunghezza compresa tra i 9 ed i 10 metri, ripete per quanto opportuno alcune caratteristiche della gondola, come la dissimmetria trasversale; è una barca a due remi, con insellatura più pronunciata a poppa, piuttosto agile e veloce, usata frequentemente per gite dei turisti in laguna.
La “mascareta” è unità ancora molto diffusa in laguna, leggera e manovrabile, con forme slanciate a prora e poppa e parziali tratti di copertura alle estremità, con lunghezza normalmente compresa tra i 6 e gli 8 metri.
Unità di maggiori dimensioni, più robuste, spesso usate per impieghi fuori laguna nella pesca o nel trasporto di merci, ma di origini più tarde (dal XIV al XVIII secolo) possono essere citate nel trabaccolo, la caorlina o il bragozzo.
A partire dal XII secolo le operazioni commerciali veneziane furono assunte quasi totalmente dallo Stato, che organizzava direttamente le principali spedizioni nel sistema delle “mude”, con frequenza all’incirca annuale, mediante l’uso di alcune unità che, con il metodo dell’asta, venivano appaltate a consorzi privati che a loro volta affittavano a terzi aree e volumi delle navi per il trasporto delle merci. Su ogni nave doveva imbarcare un Patrono nominato dal Consorzio, che poteva anche assumere l’incarico di procedere alla vendita delle mercanzie se autorizzato dai mercanti proprietari di esse, che ne fissavano però le condizioni di vendita. Il Patrono reclutava e compensava l’equipaggio (con l’anticipo di alcuni mesi di paga), formato da ufficiali, rematori, balestrieri, e personale vario, nonché da un medico. Le norme per l’esecuzione dell’asta erano di competenza del Senato della repubblica, che fissava anche le regole per l’esecuzione dell’impresa, come la data della partenza, i porti ove le unità dovevano sostare ed i tempi per tale sosta, le rotte che dovevano essere seguite, il tipo e consistenza dell’equipaggio, la sistemazione prevista per il carico delle merci. Rappresentante dello Stato a bordo e responsabile della rispondenza alle norme era il Capitano, che a mezzo di uno scrivano prendeva nota delle circostanze che si verificavano durante la navigazione per riferirne al Senato al termine del viaggio; la navigazione era governata da un Ammiraglio. Questo sistema resse sino al XV secolo, quando l’iniziativa commerciale venne totalmente assunta dal privato.
Caratteristica veneziana fu l’organizzazione pubblica del servizio di traghetto con la gondola, che non si limitava a servire le sponde prospicienti del Canal Grande (si ricorda che sino al secolo XIX esisteva sulla via d’acqua il solo ponte di Rialto), ma collegava con burchi la città lagunare anche con la terraferma, con Padova e addirittura Ferrara. Per quest’ultima località la “Barca corriera” impiegava tre giorni in un viaggio in cui si mangiava male, si dormiva peggio in luride cabine, tra la più varia umanità, il bestiame, mercanzie e carichi non sempre olezzanti. Servizio più raffinato era offerto dai “burchielli”, ed in particolare dal “Burchiello” per eccellenza, che percorreva la Riviera del Brenta sino a Padova con un servizio giornaliero. Il battello era riccamente decorato all’esterno ed all’interno, dotato di comodità, serviva prevalentemente la gente “bene” ed i nobili. Da Venezia a Padova impiegava 16 ore (comprese le soste), con l’uso di vele in laguna, poi di remi o trainato da cavalli, ed “ogni venti minuti avanzava un miglio” come testimonia il Goldoni, cioè teneva una… velocità di crociera di 3 nodi!
Ma il servizio lagunare per eccellenza era quello prestato dalla gondola. Di questa non si conosce però né quando né come è nata, e non è sicuro neppure quale sia l’etimologia del suo nome. A quest’ultimo riguardo, le ipotesi spaziano dal greco “kondu”, che significa coppa o tazza, al napoletano “vongola” quale variante del latino “conchula”, piccola conchiglia (è il Sansovino il proponente di una tale, poco probabile, derivazione). L’ipotesi più accreditata sembra sia una successiva corruzione di pronuncia dal latino “cymbula” o barchetta.
A riguardo della sua data di nascita, la prima citazione scritta del vocabolo “gundulam” risale circa all’anno 1000, in un decreto del Doge dell’epoca per dispensare gli abitanti di Loreo dal fornirgliene una, a meno che non lo facessero… volontariamente. Ma l’imbarcazione di cui si trattava era ben diversa dalla gondola quale si verrà configurando successivamente: era, più verosimilmente, una barca a fondo piatto, tozza e panciuta, quale veniva impiegata all’epoca e non solo in laguna.
Solo nel tardo quattrocento si trovano alcune incisioni in legno di xilografi tedeschi che riproducono barchette sottili, curve, a fondo piatto, con una piccola tenda al centro ed ornamenti metallici alle estremità che richiamano la forma delle gondole quali noi oggi le conosciamo. Non siamo però ancora alla vera e propria gondola, della quale si avrà una fedele riproduzione soltanto nella famosissima pianta di Venezia dovuta ad Jacopo de Barbari, datata 1500. Si può quindi ritenere che soltanto verso la fine del XV secolo la gondola abbia assunto la fisionomia che poi rimarrà sostanzialmente immutata nei secoli.
Non si è neppure sicuri che la sua caratteristica di pencolare sul lato destro sia dovuta all’effettivo volere dei primi costruttori, poiché qualcuno la attribuisce ad una imperfezione dovuta alle rudimentali tecniche costruttive dell’epoca: di primitivi disegni della gondola non risulta traccia nelle carte conservate negli archivi ove, seppure é possibile reperire schizzi di barche veneziane risalenti al XVI secolo, nessuno di essi si riferisce alla struttura della gondola. Sta di fatto che questo supposto errore di costruzione si sarebbe dimostrato una preziosa soluzione ai problemi sia di dare un assetto trasversalmente diritto all’imbarcazione che, se vogata da una sola persona, tenderebbe ad inclinarsi verso sinistra per la posizione che assume il gondoliere, sia di correggere la tendenza ad accostare sulla sinistra nella sua rotta, per effetto della eccentrica spinta del remo sul lato destro.
E sempre per rimanere sui tentativi di dare spiegazioni etimologiche ai nominativi assegnati a particolari della gondola, sappiamo che, seppure oggi molto in disuso, l’imbarcazione veneziana era un tempo corredata di una piccola cabina al centro, chiamata “felze”: ebbene, anche di questo termine non si conosce la genesi, e qualcuno ha ventilato l’idea che esso derivi dal fatto che talora la copertura dei primitivi abitacoli (popolarmente “caponere”) era realizzata con felci.
Su quanto avvenisse sotto il felze si sono ricamati aneddoti di ogni genere, Ma alla maggior parte dei visitatori stranieri di alta rinomanza che hanno lasciato scritti su Venezia (De Musset, Gorge Sand, Byron, Shelley, Dickens, Twain, per citarne solo alcuni) quella cabina nera sulla gondola nera richiamava l’immagine dovuta a Goethe, di una… bara. Ma perché le gondole sono tutte dipinte di nero? Nel XVI secolo esse erano dipinte coi colori più splendidi e diversi ed adorne di rifiniture preziose, per le quali le famiglie nobili veneziane facevano a gara nel superarsi in fasto ed originalità. E con esse erano… adornati fantasmagoricamente anche i gondolieri che stavano in “pope” delle gondole di “casada” (così erano denominate le imbarcazioni di proprietà delle famiglie, contro le gondole di “parada” che erano quelle dedicate al servizio pubblico, in particolare di traghetto). Ad un certo punto i reggitori della Serenissima debbono aver pensato che il troppo stroppia, e attraverso leggi suntuarie, emanate su iniziativa dei “Provveditori sopra le pompe” posero un freno alle manifestazioni di sfarzo della nobiltà veneziana e, in particolare, imposero che le gondole fossero tutte dipinte di nero (che non era però il colore del lutto: tale era, per Venezia, il rosso). Non è che i veneziani siano stati molto ossequienti a queste disposizioni, che per lungo tempo vennero in parte disattese, a costo di multe salate; a dare l’ultima spinta alla colorazione nera delle gondole sembra sia sopravvenuta (ma il fatto non risulta da alcuno scritto) la promessa di dipingere in tal guisa le barche se da chi ne aveva i poteri veniva fatta cessare l’ennesima peste.
Ed hanno un significato i ferri che vediamo a prora e poppa delle gondole? Probabilmente essi sono nati solo per fini estetici, e magari per creare una sorta di contrappeso al gondoliere sistemato a poppa, ma la tradizione popolare vuol far credere che il ferro di prora “el fero” (quello di poppa è ormai ridotto ad un semplice ricciolo “el risso”) abbia nella sua curvatura la riproduzione del berretto dogale, nei sei denti che si protendono in avanti (ma qualche volta sono anche di meno) la raffigurazione dei sestieri (i rioni) veneziani, mentre nel dente verso l’addietro sarebbe rappresentata l’isola della Giudecca.
Le gondole si conducono e governano generalmente mediante un unico, lungo, remo (per curiosità, nel ‘500 esso costava circa una lira) appoggiato sulla “forcola”, che di per se stessa ha quasi la forma d’un’opera d’arte moderna. E sembra quasi impossibile che con questo armamentario così rudimentale, possa esser condotta per i tortuosi canali e sotto i ponti veneziani, un’imbarcazione lunga più di 11 metri e larga almeno 1.40. Eppure l’eccezionale abilità dei gondolieri vi riesce, solo aiutata, quando occorra, da qualche potente “ohé” gridato in curva per mettere sull’avviso chi sopravvenisse dal senso opposto.
Abbiamo già visto trattando della Via della seta quali fossero le vie terrestri ed acquee attraverso le quali si svolgevano in antico gli scambi commerciali tra oriente ed occidente; le vie del mare assunsero importanza perché più rapide e comode per il trasporto della seta: navigando per 24 ore al giorno, magari fermandosi in porto nei momenti più perigliosi, il percorso in andata e ritorno dalla Cina per l’Egitto, mantenendosi in prossimità delle coste, poteva essere compiuto in soli otto mesi. Tali rotte non erano comunque da considerarsi le più sicure, non solo per le insidie del mare, cui i marittimi di allora erano tutt’altro che preparati, ma anche per la pirateria che infestava i passaggi obbligati per le navi nel golfo del Bengala e sui mari cinesi.Da segnalare che l’Antiquity and Monument Office di Hong Kong ha proposto che sia riconosciuta come patrimonio dell’umanità dell’UNESCO la Via della seta marittima, che dal nord della Cina collegava la Cina meridionale prolungandosi a numerosi Stati asiatici ed europei.
Per i grandi scambi internazionali bisogna però giungere ai secoli XIII e XIV d.C.. Dopo la nascita dell’impero romano d’oriente Costantinopoli, in posizione geografica privilegiata essendo sul transito d’importanti collegamenti commerciali, vide però diminuire i rapporti con l’occidente europeo impoverito dalle invasioni barbariche, e quindi volse maggiormente i propri interessi agli stati dell’Asia orientale. Allo sviluppo di questi traffici si opponeva soprattutto la Persia, sul percorso obbligato per giungere alla Cina, ciò che spinse i bizantini a commerciare con questa nazione senza transitare per la Persia, ossia attraverso la Crimea od operando per via marittima attraverso il mar Rosso e l’oceano Indiano. Con la disintegrazione dell’impero mongolo, la conseguita chiusura della Cina al commercio straniero, lo spezzettamento della Via della seta sotto domini diversi, la rinascita delle possibilità di taglieggiamento e ricatto dei commercianti in transito, uniti alla ormai secolare scomparsa del monopolio cinese della seta, l’importanza di quella che era stata uno straordinario mezzo di comunicazione tra oriente ed occidente decadde e rimase solo come fatto culturale.
Sui percorsi terrestri ci si spostava prevalentemente con formazioni carovaniere, composte anche di 500 persone al fine di costituire gruppi armati consistenti contro attacchi di malviventi: le vie carovaniere attraversavano l’Asia centrale collegando la Cina all’Anatolia ed al mare Mediterraneo, con diramazioni che giungevano verso est al Giappone ed alla Corea e verso sud all’India. Si ritiene che in periodo ellenistico gli Arabi intermediari del commercio con l’oriente imponessero pedaggi alle carovane, ciò che si rifletteva anche in un rialzo del costo delle merci trasportate. Cavalli, muli e cammelli costituivano i mezzi di trasporto più frequentemente utilizzati per il trasporto nei percorsi terrestri, mentre i carovanieri marciavano a fianco degli animali, anche per oltre 25 sino a 30 chilometri in almeno 10 ore di marcia giornaliere. Se i trasferimenti avvenivano a cavallo, le percorrenze potevano salire anche a 50 chilometri al giorno.