Nell’arte navale la conoscenza romana, partita da livelli piuttosto bassi essendosi in precedenza affidata alle marinerie etrusca e greca, si fece più elevata per gli obblighi che le si imposero al fine di non soccombere alla emergente potenza cartaginese, notoriamente eccelsa in fatto di navigazione e costruzione navale. I primi successi negli scontri bellici con le unità puniche che sino ad allora avevano dominato i poteri, nonché i traffici commerciali, nel Mar Mediterraneo, si realizzarono appunto con il ricorso alla tecnologia, nell’intento di costringere gli avversari a misurarsi come nelle battaglie terrestri in cui i Romani, mercé la loro organizzazione e preparazione, sicuramente primeggiavano: nacquero i “corvi” di Caio Duilio.
Nell’anno 260 a.C., nel corso della prima guerra punica, la appena costituita flotta romana si era scontrata alle isole Lipari con una forza cartaginese di pressoché pari consistenza, uscendone sconfitta e subendo la cattura della quasi totalità delle navi e del console Cornelio Scipione Asina che le comandava (sembra che il soprannome gli sia appunto stato affibbiato per il cattivo esito dell’impresa, seppure successivamente compensato con il trionfo decretatogli per la conquista di Palermo). I Romani allora sistemarono a prora delle loro navi una passerella brandeggiabile sia orizzontalmente che verticalmente, munita all’estremità di un ferro verticale appuntito rivolto verso il basso: questa estremità veniva sollevata mediante una fune, allentando la quale il “corvo” ricadeva piantandosi sulla coperta in legno della nave avversaria, ciò che consentiva ai soldati romani di abbordarla e combattere con la tecnica della terraferma, nella quale erano maestri. Con circa 100 navi così attrezzate la flotta romana, al comando del console residuo e comandante delle forze di terra, Caio Duilio, si presentò al largo di Milazzo, occupata e saccheggiata dai Cartaginesi, cosicché questi, sicuri del successo, le si fecero incontro con circa 200 navi, ma 50 di queste finirono catturate e le restanti fuggirono: 3000 Cartaginesi furono uccisi e 7000 fatti prigionieri.
Su questa nascita e storia dei “corvi” aleggia la leggenda: si dubita persino che siano mai stati creati, ma che di essi si siano inventata la storia i Cartaginesi, ed in particolare il comandante della loro flotta Annibale di Giscone, per mascherare la sconfitta sul mare, in considerazione che a Cartagine un tale evento veniva punito persino con la crocefissione dell’ammiraglio comandante (ed Annibale l’avrebbe subìta dopo una successiva sconfitta davanti a Sulci, città punica in Sardegna). Per certo si è che i Romani, appresa l’arte della lotta navale, riuscirono vincitori anche nei successivi scontri; e se realmente montarono i “corvi”, liberarono presto le loro unità di quel fardello che le rendeva poco agili e manovrabili, tanto che effettivamente avrebbe loro procurato grosse perdite in mare durante una tempesta.
dietro migliaia di carri di bambù, solidi e leggeri, trainati da buoi o da cavalli. Non meno numerosi erano i carriaggi dei Persiani, specie nelle operazioni militari in Grecia. Presso i Greci i convogli erano invece meno ingombranti: l’oplite si faceva seguire da uno schiavo che portava i bagagli, i viveri e le armi, ciò che riduceva il carreggio. Le legioni romane avevano convogli minimi: il legionario, frugale, robusto ed allenato alle marce, portava con sé un carico che fra abbigliamento.
E’ interessante farsi un’idea di quali attrezzature ed iniziative i grandi condottieri dell’epoca si siano giovati per il trasferimento a lunghe distanze delle grandi masse di soldati e delle loro attrezzature, secondo una tecnica oggi denominata “logistica” con un termine mutuato dalla cultura militare, per la quale essa è il ramo della scienza che si occupa del mantenimento delle truppe operanti, assicurando loro i rifornimenti di viveri ed armi, l’equipaggiamento, i servizi sanitari, e non ultimi i mezzi di trasporto; può essere interessante ricordare come le possibilità di trasporto abbiano giocato, con la loro evoluzione nel tempo, nelle operazioni militari del passato. Duemila anni prima di Cristo i Cinesi per il trasporto delle macchine da guerra, dei viveri, dei foraggi, si trascinavano
armi e 15 giorni di viveri si aggirava attorno ai 50 chili: questa quasi assoluta indipendenza dai rifornimenti fu non ultimo motivo dei successi dei romani, i quali però non rivolsero corrispondente attenzione al naviglio. Dopo la sconfitta di Cartagine (202 a.C.), Roma fu libera di guardare ad occidente e pochi anni dopo, a Cinocefale, sconfisse la Macedonia che, con Filippo V, governava anche la Grecia e l’Egitto: però fu la cultura greca ad impossessarsi dell’animo dei romani colti (“Graecia capta ferum victorem cepit”, “la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore” scrisse Orazio): la lingua greca continuò ad essere l’idioma parlato in oriente, Atene rimase il centro della vita politica e civile dell’Ellade, anche se Roma estese alla Grecia le proprie istituzioni politiche ed il proprio diritto oltre alla più sviluppata tecnologia civile e militare, ciò che fu però anche causa di obnubilamento di parte delle conoscenze tecniche e scientifiche raggiunte nei secoli precedenti, alle quali scarsa attenzione e quindi scarso contributo venne apportato dalla romanità, anche per l’opposizione da parte dei Tolomei governanti, alla introduzione in Egitto di nozioni contenute nei testi di scienziati di esterna provenienza (un provvedimento reale imponeva alla navi che attraccavano ad Alessandria la consegna dei testi originali, che venivano in tempi successivi sostituiti da copie compilate dai tecnici della Biblioteca). Si aggiunga la perdita di parte della documentazione scientifica accumulata e conservata nella stessa Biblioteca, a causa dell’estensione ad essa di un principio di incendio di probabile origine dolosa su di una nave romana, seppure rapidamente estinto. Per il periodo preistorico e protostorico non ci sono pervenute notizie di grandi movimenti per mare, sino al momento in cui le capacità acquisite nella marineria, in particolare da Fenici, Etruschi e Greci, non consentì a questi ultimi le corpose migrazioni che portarono alla fondazione delle colonie in quasi tutto il Mare Mediterraneo e oltre (citiamo Cadice, Sagunto, Malaga, Nizza, Marsiglia, Napoli, Taranto, Agrigento, Siracusa per nominare soltanto le più note) quando l’incremento demografico raggiungeva i limiti di sostenibilità in una città oppure si manifestava l’esigenza di estendere le aree coltivabili, naturalmente scarse in Grecia, od anche si riteneva che ragioni politiche o di potere consigliassero la costituzione di questo corpo, estraneo alla città madre ma che con essa manteneva stretti legami sociali e culturali. Le operazioni erano precedute da un rituale che, ottenuto il favorevole auspicio da parte del sacerdote di Apollo in Delfi, prevedeva un’accurata preparazione della spedizione, con la destinazione per sorteggio dei maschi scapoli, la nomina del capo e la fissazione di una data di partenza che tenesse conto della necessità di giungere alla nuova meta in una stagione propizia per la semina, affinché a tempo debito non mancassero agli avventurosi i necessari generi alimentari. In Italia la prima colonia greca fu Cuma, in Campania, costituitasi nell’ottavo secolo a.C.
Con le proprie colonie, come pure con altre popolazioni, i Greci avevano molti scambi commerciali via mare, soprattutto nelle buone stagioni quando il navigare era più sicuro; essi importavano soprattutto prodotti alimentari (grano) e metalli (rame e stagno per la fusione del bronzo), esportavano olio, vino,tessuti, vasi, …persino schiavi. Più in partenza dalle colonie che dalla madrepatria si ebbero poi audaci navigatori indirizzati verso le scoperte in acque non conosciute: si racconta di Pitea (IV sec. a.C.) che salpò da Massalia (oggi Marsiglia) e navigando lungo le coste francesi e spagnole superò lo stretto di Gibilterra dirigendosi a nord verso la Cornovaglia prima e poi la Scandinavia, sia per interesse scientifico sia per acquistare prodotti rari quali l’ambra e lo stagno; fonti diverse optano per l’arrivo in Atlantico attraverso i fiumi della Gallia, anziché con il transito per le colonne d’Ercole, controllate dai Cartaginesi. Pitea ne scrisse nel suo volume “Sull’Oceano” affermando di aver raggiunto l’isola di Tule (ancor oggi non esattamente identificata ma considerata prossima al circolo polare artico). Per lo stesso periodo si hanno scarse notizie del viaggio di Eutimene, anch’esso in partenza da Massalia, che avrebbe costeggiato l’Africa raggiungendo l’estuario di un grande fiume (forse il Senegal): Seneca riferisce del fantasioso resoconto del navigatore, secondo cui il fiume sarebbe stato il Nilo, formatosi per penetrazione dell’acqua marina e attraverso l’Africa pervenuto al territorio egiziano. Poche notizie riferiscono pure del viaggio di Demetrio di Tarso che sarebbe giunto alle isole britanniche (notizie in qualche modo corroborate dal ritrovamento di iscrizioni greche a sua firma nella zona di York) e di quello di Ofela lungo le coste africane, citato con molta dubbiosità da Strabone.
Tra le unità navali in uso ai Greci dell’epoca si può citare la “triera”, di concezione fenicia (la superiorità dei Fenici, e dei Cartaginesi in particolare, nel campo della navigazione è data come indiscussa), una nave di circa 40 metri di lunghezza, con tre ordini di rematori per ogni fianco, munita di due alberi su cui issare le vele. Attribuito al IV sec. a.C. è il relitto dell’unica nave greca dell’epoca a noi pervenuta in ottimo stato di conservazione, affondata davanti a Kyrenia, Cipro settentrionale, e sistemata nel castello della città. Sulle difficoltà di costruzione e di navigazione delle imbarcazioni vale ancora quanto espresso a riguardo della marineria fenicia. Si possono aggiungere l’affermazione di Erodoto secondo cui studi geometrici greci avevano ottenuto buoni risultati, tanto da far nascere una scienza denominata geodesia, e come curiosità il richiamo al gioco della palla di Nausicaa nel canto VI della “Odissea” quale ancestrale residuo di conoscenze che sarebbero state ottenute da preistorici naviganti giunti, non si sa come, nella zona del centro-America ove tale gioco era praticato dai Maya.
Fu quindi lo sviluppo stradale creato dai Romani per motivi essenzialmente militari ad assumere grande importanza anche per le attività commerciali, trattandosi di un sistema viario che alimentava gli scambi in tutto il territorio dominato da Roma ed oltre: all’apogeo dell’impero un’unica grande strada circondava tutto il Mediterraneo, nell’Europa centrale le grandi strade si incrociavano tra loro e seguivano il confine e le vecchie vie commerciali, in oriente sussistevano i sistemi viari creati dagli imperi e dalle dinastie ellenistiche, e le grandi vie carovaniere toccavano le principali città quali Efeso, Petra e Palmira. Naturalmente i mezzi di trasporto impiegati erano tutti molto lenti ed i tempi impiegati per coprire le grandi distanze rimasero pressoché invariati sino all’avvento dei moderni mezzi meccanici ottocenteschi: un carro trainato da buoi copriva non più di 15 chilometri al giorno nella buona stagione, il servizio di stato a cavalli istituito dai Romani prevedeva circa 21 giorni tra
Efeso e la Mesopotamia, ma i servizi privati non ne impiegavano meno di 30; anche 150 km al giorno potevano essere percorsi via mare, ma limitatamente ai periodi stagionalmente favorevoli.
Nel commercio marittimo romano si impiegavano anche navi speciali per merci particolari: citeremo le “lapidariae” per il trasporto di marmi, la “frumentariae” per il grano, le “vinariae” per il vino, il cui trasporto oltre che con anfore avveniva con grandi vasi (“dolia”) che contenevano sino a 3000 litri di liquido ciascuno, le “bestiariae” per il trasporto degli animali destinati ai giochi nei circhi. Per carichi eccezionali, come quelli degli obelischi, si attrezzavano appositamente le navi, mentre non risulta che siano mai esistite unità destinate al solo trasporto delle persone, che avveniva promiscuamente con quello delle mercanzie. La capacità di trasporto delle navi raggiungeva talora livelli notevoli: alcune unità potevano trasportare più di 10.000 anfore, sistemate su quattro o cinque strati, con un peso complessivo dell’ordine delle 500 tonnellate odierne, altre sino a quasi 200.000 moggi di grano, per oltre 1200 tonnellate, sì che si calcola che giungessero annualmente a Roma, per la distribuzione gratuita alle classi povere, anche 270.000 tonnellate di frumento. Dall’oriente era fiorente anche il trasporto delle spezie, con destinazione alle classi patrizie.