Ecocompatibilità delle demolizioni navali

Premesse alcune considerazioni di carattere generale sulla vivibilità del pianeta Terra, e in particolare sul problema ecologico dello smantellamento delle navi vetuste,  vengono trattati di seguito i temi proposti da convogliare in un addendum alla Convenzione Marpol 73-78 denominato Annesso VII, in elaborazione da parte dell’IMO (International Maritime Organization) circa la demolizione delle navi. Chiarito che non trattasi di una questione marginale, vengono esaminate le situazioni che maggiormente preoccupano sia per la protezione dell’ambiente sia per la salute e la sicurezza dei lavoratori del settore. Viene infine proposto un indirizzo per un sistema funzionale coordinato al fine di razionalizzare la soluzione dei problemi di carattere ecologico, sociologico ed economico che oggi si pongono per l’esercizio delle operazioni di demolizione navale.

Premesse alcune considerazioni di carattere generale sulla vivibilità del pianeta Terra, ed in particolare sul problema ecologico dello smantellamento delle navi vetuste,  vengono trattati i temi proposti da convogliare in un addendum.


La necessità di un intervento

Se è pur vero che l’uomo ha iniziato a degradare l’ambiente in cui viveva sin dalla sua comparsa sulla terra, l’impatto sull’ambiente è divenuto di interesse preminente con lo sviluppo dell’industria, l’attività di concimazione in agricoltura, la formazione di grossi raggruppamenti umani con la produzione della enorme quantità di rifiuti e residui che ciò comportava.

Che si deve intendere per “impatto sull’ambiente”? Come spesso avviene in Italia, il fenomeno viene espresso con una terminologia di origine anglo-sassone per intendere l’influsso con cui l’opera dell’uomo agisce sull’ambiente naturale. Il problema ha ovviamente risvolti di carattere economico, e quindi nella sua considerazione non si possono trascurare gli aspetti che coinvolgono la teoria del mercato. Ma per una corretta soluzione del problema lo schema del mercato concorrenziale e del profitto non pare applicabile in assoluto, specie quando implica decisioni territoriali, che non sono quindi modificabili come altre decisioni. Porre i problemi dell’ambiente significa talora stravolgere i parametri tradizionali dell’economia per proporre una serie di relazioni non valutabili sul mercato ma aventi anche una rilevanza e conseguenze economiche.  La materia che studia le interrelazioni tra gli organismi e l’ambiente nel quale operano, è la “ecologia”, la disciplina che studia la struttura, il funzionamento e lo sviluppo dell’ecosistema, cioè dell’assieme della comunità e dell’ambiente nel quale vive, per cui se pur non si può dire che essa sia solo la scienza che studia l’inquinamento e la modifica dell’ambiente, ci porta a domandarci se il progresso sia la causa di un futuro migliore per l’umanità o se da esso tragga origine una corsa verso il disastro. In verità saremmo scoraggiati se volessimo tener conto di tutti i pericoli cui il progresso oggi ci espone: come potremmo, ad esempio, affermare che la scoperta dell’elettricità sia stata utile all’umanità se dovessimo mettere in conto le innumerevoli vittime che da tale scoperta hanno avuto origine?

Vogliamo precisare che la nostra visione del fenomeno “ecologia” non pencola verso il catastrofismo e le descrizioni terrificanti del futuro dell’uomo sulla terra, ma che riteniamo che tale aspetto debba essere considerato con serenità ed equilibrio, tenendo conto che i problemi esistono, non debbono essere sottovalutati, e che è comunque preferibile non degradare un ambiente piuttosto che darsi da fare par risanarlo. E’ l’uomo che ha in potere un gran numero di attività, tecnologia, scienza, arte, economia, politica: è pertanto dell’uomo la responsabilità di usare bene o male le proprie possibilità di operare in senso positivo o negativo, basta che egli voglia utilizzare in questo senso le conoscenze acquistate. Se pertanto affermiamo che non si può continuare impunemente a degradare le risorse naturali col mancato rispetto degli equilibri biologici e della qualità della vita umana, siamo anche dell’opinione che una volta che l’umanità si sia resa conto dell’ esistenza di tali problemi, è da ritenere che abbia in se stessa la capacità di fronteggiarli e risolverli in un tempo ragionevole, nella convinzione che anche la tecnologia va indirizzata e utilizzata con criteri compatibili con le esigenze della natura.

Tra gli aspetti che hanno  inciso sulla vivibilità di un luogo sembra essere stato a lungo trascurata la considerazione dell’impatto sull’ambiente da parte di una pratica indispensabile per il corretto ed economico funzionamento dell’attività armatoriale delle navi, e cioè la necessità di distruggere, e per quanto possibile riciclare, i materiali di risulta al termine della vita utile del naviglio.


Il processo di approvazione della Marpol 73-78

Nell’ultimo dopoguerra, a seguito di clamorosi incidenti navali, cresce in Europa una coscienza ambientalista che induce gli Stati europei, a cominciare dal Regno Unito, a dettare regole per il trasporto di petrolio via mare. Viene coinvolta l’agenzia dell’ONU che regolamenta il trasporto marittimo internazionale, l’IMO (International Maritime Organization), che stende una Convenzione denominata MARPOL 73-78 (divenuta esecutiva nel 1983) per rispondere alla necessità di controllare e limitare il rilascio in mare, accidentale e/o deliberato, di idrocarburi ed altre sostanze pericolose. La Convenzione detta in anni successivi le Regole per la prevenzione dell’inquinamento marino da sostanze diverse, che sono oggi costituite essenzialmente da:

  • Annesso I        Olio e sostanze oleose
  • Annesso II       Sostanze liquide nocive                    
  • Annesso III      Sostanze nocive caricate in colli       
  • Annesso IV     Acque di scolo delle navi                  
  • Annesso V       Scarico a mare di rifiuti         
  • Annesso VI     Scarichi in atmosfera dei motori marini.

La Convenzione risolve però solo parzialmente il problema dell’inquinamento in mare: e quindi, a seguito di un grave incidente avvenuto nel golfo meridionale dell’Alaska nel 1989, ad opera della petroliera Exxon Valdez, il Congresso americano emette l’Oil Pollution Act  (OPA 90) che pone limitazioni all’accesso nei  porti statunitensi di navi destinate al trasporto di petrolio se non dotate di un doppio scafo, normativa a cui si allinea successivamente la MARPOL con emendamenti allo Annesso I che prevedono anche la graduale eliminazione dal traffico marittimo delle petroliere aventi scafo semplice. A tali normative consegue quindi non solo uno svecchiamento delle petroliere circolanti, ma anche un aumento della pratica di demolizione delle navi: ogni anno – nel mondo – un numero compreso tra 200 e 600 navi con stazza lorda superiore alle 20.000 tonnellate giunge alla fine del proprio ciclo di vita e viene smantellato. Si tratta di un numero rilevante di navi, che peraltro sta anche velocemente aumentando: nel 2010, ad esempio, ne è previsto il raddoppio poiché – oltre alla “normale” attività di smantellamento per vetustà – a quella data scatterà il divieto di navigazione per ben 800 navi cisterna a scafo singolo, nonché, nel 2015, per altre 1300 navi.
Dalla demolizione di una nave si ricava una enorme quantità di materiali, non solo acciai, che costituiscono una vera ricchezza per i Paesi economicamente più deboli, ove la maggior parte delle grandi navi vengono smantellate. Attualmente circa i due terzi delle navi sono demolite sulle spiagge e sulle rive dei grandi fiumi dell’India, del Pakistan e del Bangladesh, che è il Paese che è maggiormente interessato a questa attività.


L’impatto della demolizione delle navi sull’ambiente

(Fonte: LIBRO VERDE ”Per una migliore demolizione delle navi” pubblicato il 22.5.2007 dalla Commisione europea – Direzione generale Ambiente – Unità G.4 “Produzione e consumo sostenibili”)

Nel momento in cui una nave è destinata alla demolizione, viene ceduta ad un prezzo prevalentemente determinato dal peso della nave stessa. Per anni questo prezzo è stato di circa 150 dollari/tonnellata, ma la cifra oggi può sfiorare anche  i 500 dollari/tonnellata, ciò che significa che una super petroliera come le VLCC o very large ol tanker di circa 300.000 tonnellate corrispondente a circa 45.000 ldt (light displacement) può valere, da rottame, fino a 10 milioni di dollari. Questa cifra viene esclusivamente calcolata in base alla qualità e quantità dell’acciaio contenuto nella nave e di altri metalli quali rame o nickel o di equipaggiamenti che possono essere recuperati o rivenduti.             

Si tratta pertanto di una valutazione economica che non tiene conto della presenza a bordo di sostanze pericolose che dovrebbero essere trattate o comunque recuperate correttamente. Al riguardo va anche considerato che, nel corso dei suoi venti/trenta anni di vita, una nave viene più volte sottoposta a interventi di manutenzione e riparazione, nella maggioranza dei casi poco documentati. Questo comporta, al momento dello smantellamento della nave, di non sapere con precisione che cosa si troverà a bordo, quali materiali potranno essere riciclati e che tipo di lavorazione dovrà essere utilizzato per recuperarli e/o smaltirli.

Gli aspetti economici

Si valuta che attualmente solo una piccola percentuale delle navi avviate a demolizione è smantellato rispettando adeguate norme di sicurezza e protezione dell’ambiente, e questo avviene prevalentemente in Europa e in alcuni cantieri cinesi, ma relativamente  a soltanto circa 2 milioni di tonnellate/anno, cioè per una quantità molto limitata rispetto al totale delle operazioni.  Ovviamente lo smantellamento in sicurezza ed ecologicamente corretto comporta maggiori costi che lo rendono scarsamente competitivo rispetto a quanto praticato nei Paesi del sud dell’Asia.

Inoltre  va considerato che il numero delle navi destinate alla demolizione è strettamente legato al mercato dei naviglio maggiore  (navi cisterna e navi da carico secco) che rappresenta il segmento di maggiore importanza, e da ciò deriva che le attività di demolizione delle navi costituiscono una fonte rilevante di materiale (e quindi di introito per i demolitori) per i Paesi del Sud asiatico: é stato calcolato che il Bangladesh ricava la quasi totalità dell’acciaio per uso interno (circa l’80%) proprio dallo smantellamento delle navi, acciaio che viene utilizzato nell’edilizia oppure rivenduto nello stesso mercato navale.

Una tale destinazione dei materiali di risulta, per regolamenti e norme vigenti, non può avvenire nei Paesi più sviluppati, e da ciò deriva che una struttura europea di smaltimento ecologicamente compatibile deve basarsi su mercati di nicchia (strutture off-shore, pescherecci e altre imbarcazioni minori) che difficilmente consentono di coprire i costi di gestione e investimento.
Un altro fattore economicamente rilevante è rappresentato dal costo del lavoro. Ad esempio, un lavoratore indiano o del Bangladesh guadagna 1- 2 dollari al giorno e praticamente non vengono sopportarti costi ulteriori per quanto concerne la sua sicurezza e gli aspetti sanitari. Lo stesso lavoratore in Europa, costa circa 13 dollari al giorno in Bulgaria e fino a 250 dollari al giorno in Olanda.                        

Dunque ciò che rende fortemente competitivi gli operatori del sud asiatico è il basso costo del lavoro, il conveniente ricircolo dei materiali ricavati dalla demolizione, la quasi totale assenza di costi legati alla sicurezza dei lavoratori ed alla salvaguardia dell’ambiente, dimodoché i costi di smantellamento in Bangladesh possono essere anche la metà di quanto incidono in Cina e solo un decimo di quanto in USA.


Gli impatti ambientali                                                                       

Purtroppo le navi possono contenere quantità rilevanti di materiali pericolosi, specie se costruite prima del 1980. Ad esempio amianto, Pcb (policlorobifenile usato come isolante e lubrificante), metalli pesanti contenuti nelle vernici, fanghi oleosi, residui dei prodotti trasportati e molto altro.
Secondo uno studio della Commissione europea l’attività di smantellamento che sarà compiuta fino al 2015 produrrà 5,5 milioni di tonnellate di vari materiali con potenziale impatto ambientale, costituiti in buona parte: Con la demolizione delle navi, questo rilevante flusso di rifiuti pericolosi viene di fatto trasferito dai Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo (si consideri, ad esempio, che circa il 36% del tonnellaggio complessivo delle navi appartiene a società domiciliate nei Paesi dell’Unità Europea). Ma i siti utilizzati nel subcontinente indiano per lo smantellamento, nella quasi totalità dei casi non sono dotati di sistemi per il contenimento dell’inquinamento del suolo o delleacque. Pochi siti hanno strutture per il recepimento dei rifiuti e comunque raramente i sistemi di trattamento dei rifiuti sono rispondenti ad un sufficiente standard di sicurezza. Seppure i dati disponibili sull’impatto ambientale siano scarsi, fotografie

Foto da Google Maps

aeree in due tra in siti più attivi (Alang in India e Chittagong in Bangladesh) nonché ricerche condotte da associazioni ambientaliste non governative, mostrano un forte deterioramento delle qualità fisiche e chimiche del suolo e delle acque circostanti, al punto da determinare la scomparsa locale di vegetazione e pesci.


Importanza della questione

A fronte di ben più gravosi inconvenienti a danno dell’ambiente che siamo ormai abituati a considerare connessi con l’attività del trasporto navale, può sembrare eccessiva l’attenzione che si vuol porre sui pericoli derivanti da una attività che appare marginale: consideriamo però qual è l’interesse che l’ambiente venga mantenuto esente il massimo possibile da qualunque genere di inquinante, pure di quelli di cui possiamo essere portati a sottovalutare l’importanza ed a non avvederci della  incidenza sul disagio per l’ambiente ma che sono portatori di un impatto tutt’altro che trascurabile per l’ecologia del pianeta..

La questione ecologica si è rivelata in maniera abbastanza vistosa negli ultimi anni, con alternative che reclamano interventi seri, concreti, determinanti. Non va nascosta la complessità della soluzione totale del problema in quanto bisogna pure considerare:

  • la struttura socio-economica delle popolazioni interessate, con particolare riguardo alle loro attività lavorative, alle loro ubicazioni ed ai redditi che ne conseguono,
  • la struttura funzionale della zona interessata, con particolare riferimento alla consistenza ed allo stato di conservazione delle strutture fisiche, all’adeguamento dei servizi e degli impianti tecnici, ai requisiti dimensionali d’uso e fisico-tecnici degli impianti,
  • la struttura morfologica dell’ambiente interessato, con particolare riguardo alla cronologia degli interventi costruttivi, alle tipologie edilizie, alla individuazione e valutazione della struttura formale dell’ambiente.             

Tutti problemi che necessitano di analisi miranti ad individuarne i vantaggi e gli oneri, superando la tendenza molto diffusa alla carenza di esami che valutino con approccio quantitativo gli aspetti ecologici delle soluzioni insieme con i loro risvolti di carattere sia economico che sociologico.

Si consideri dunque che per ridurre i costi di demolizione delle loro navi giunte al termine della vita utile, gli armatori hanno convenienza a far eseguire le operazioni di smantellamento in quei paesi, in particolare dell’Asia sud-orientale, ove gli standard di rispetto dell’ambiente, nonché della salute e sicurezza dei propri lavoratori, sono purtroppo a livello bassissimo e gli operai cercano occupazione a qualunque condizione, stante la penuria di posti di lavoro.

E’ naturale che di conseguenza le operazioni di taglio possano avvenire con poca preoccupazione di salvaguardare le rive sabbiose, sulle quali le navi vengono portate ad arenarsi per eseguire gli interventi di demolizione, da versamenti di liquidi inquinanti o dispersione di sostanze pericolose; e che questi stessi inquinanti e sostanze nocive producano danni alla salute degli operatori, totalmente sprovvisti di dispositivi di protezione, oltre che esposti ad immaginabili rischi di cadute, esplosioni, incendi.


L’Annesso VII alla MARPOL: il progetto di Convenzione sulla demolizione delle navi

L’IMO è intervenuta sulla questione partendo dallo studio dei problemi oggi presenti nel mondo in questo settore, che conducono alla ormai riconosciuta necessità di renderlo maggiormente adeguato alle esigenze ambientali, pur con una sufficiente ampiezza di servizi e senza dimenticare la difesa dei livelli di impiego nei paesi in cui più numerose si trovano le imprese di demolizione navale.

Si è giunti così ad una predisposizione di un Annesso VII della MARPOL (in esame dall’anno 2000 ma non ancora divenuto operativo) che riguarda un progetto di Convenzione per la demolizione delle navi obsolete, additando tre direttrici principali:

  • la dichiarazione dei principi
  • le misure da prendersi per l’azione
  • le iniziative per la cooperazione internazionale.

Il progetto di Convenzione:

  • ammette che la demolizione delle navi contribuisce allo sviluppo, costituendo l’opzione migliore per le navi che hanno raggiunto il termine della loro vita attiva,
  • ricorda la necessità di promuovere nella costruzione e manutenzione delle navi la sostituzione dei materiali più dannosi, senza compromettere la sicurezza e l’efficienza operativa delle unità.
  • afferma la necessità di avere uno strumento giuridicamente vincolante per garantire la salute e la sicurezza sul lavoro contro i rischi connessi con la demolizione delle navi.

Dopo aver definito il significato dei termini che vengono impiegati nel testo, il progetto di convenzione:

  • espone i requisiti che debbono possedere le navi per facilitare le operazioni di smontaggio e demolizione una volta giunte al termine della loro vita, intervenendo sulle questioni che interessano la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione di esse, con la finalità di obbligare gli Stati membri ad adottare norme che vietino l’uso sulle navi di materiali pericolosi,
  • interviene sulle modalità per lo smantellamento delle unità, vietandone la demolizione in luoghi ritenuti non idonei, chiedendone la predisposizione mediante la riduzione di carichi indesiderati prima della esecuzione nonché un piano di demolizione conforme alle necessità di sicurezza.

Per raggiungere gli scopi prefissisi prescrive indagini periodiche per la verifica della rispondenza dei materiali di bordo alle esigenze prospettate e definisce i certificati che attestino la conformità ai requisiti della Convenzione. Fissa pure le caratteristiche che debbono possedere gli impianti destinati alla demolizione delle navi, relativamente ai quali gli Stati membri debbono stabilire norme per garantire che essi siano progettati e costruiti in conformità alle regole della Convenzione; pertanto l’esercizio degli impianti di demolizione dovrà essere subordinato alle verifiche opportune, mentre detti impianti dovranno accettare navi destinate alla demolizione solo se munite del certificato che attesti la loro idoneità a tale scopo. Deve essere predisposto un piano per la progressione delle opere, con particolari procedure al fine di prevenire gli infortuni sul lavoro; prima che le navi vengano assoggettate agli interventi di demolizione, dovranno essere rimossi da bordo alcune categorie di materiali particolarmente pericolosi per l’ambiente. Perché tutto questo sia efficace, sarà prescritto che l’armatore che intenda demolire una nave debba informare l’autorità affinché questa possa predisporre una indagine atta a constatarne l’idoneità, e gli impianti che si apprestano a riceverla dovranno essi stessi informare l’autorità, che dovrà poter vietare gli interventi ove ne esistano le condizioni.

L’intervento dell’IMO va dunque nel senso di allontanare la mentalità del pressapochismo, rifiutare il dilettantismo, richiamando gli addetti ai lavori ad una diversa sensibilità nei riguardi del problema posto dalla demolizione navale, con azioni che riguardano anche le politiche e strategie degli insediamenti umani e della loro pianificazione. Come già detto, la normativa é ancora in fase di progetto, ed é  ritenuto particolarmente necessario, naturalmente, che il trattato venga ratificato soprattutto da quei Paesi che maggiormente sono interessati allo smantellamento delle navi, quali l’India, il Bangladesh, il Pakistan, la Turchia, che oggi ospitano il maggior numero di impianti del genere.


Un sistema industriale coordinato

Naturalmente non dovunque esistono situazioni di lavoro abnormi, ma se la Convenzione IMO verrà ratificata dalle nazioni meno fortunate, chi potrà supportare gli enormi oneri economici e finanziari che il soddisfacimento delle richieste di grande rispetto per l’ambiente e miglioramento delle condizioni di lavoro, verrebbe a comportare per esse?

Tanto più che la prospettiva del futuro prossimo è non solo per una previsione di aumento delle unità da inviare alla demolizione, ma anche di una conseguente maggior quantità di sostanze dannose da fronteggiare, della presenza delle quali a bordo non ci si preoccupava granché prima degli anni ’70.

 Ci si possono quindi porre molti interrogativi sul futuro della questione  e sulle soluzioni che potranno essere date ai problemi oggi sul tappeto. E tra i tanti:

  • chi e come controllerà lo smaltimento delle sostanze pericolose nei cantieri tecnologicamente arretrati?
  • rimarrà a livello di “boutade” la proposta di far affondare le unità vetuste al centro degli oceani?
  • come sarà garantita la “gestione sicura ed ecologicamente corretta della demolizione delle navi” per stabilire quando una nave deve essere considerata rifiuto (alla luce della direttiva 90/656/CEE)  onde evitare che il regolamento sulla spedizione dei rifiuti venga disatteso?

La risposta a questi quesiti sarebbe probabilmente da aspettarsi favorevole se si riuscisse ad attuare in Europa od in un altro Paese dell’OCSE, la gestione di più impianti specifici di demolizione navale che, pur rispettando l’ambiente, potessero realizzare un positivo risultato economico coniugando contenuti costi di esercizio con un sufficientemente elevato profitto tratto dalla vendita dei rottami.

Una soluzione per raggiungere lo scopo riteniamo possa derivare dal soddisfacimento, da parte delle ipotizzate strutture industriali, della combinazione di tre condizioni fondamentali da esercire a ciclo continuo:

  • utilizzare un propinquo centro chimico per liberare la nave, prima di iniziare le opere demolitorie, di tutti i residui inquinanti,
  • realizzare programmate operazioni ingegnerizzate di demolizione,
  • selezionare ed inviare immediatamente i rottami ad un vicino centro siderurgico.

Queste operazioni non possono, in tutta evidenza, essere utilmente affrontate in un normale cantiere di riparazione, ma occorre predisporre una struttura industriale che, in primis, possegga il know-how  e le attrezzature indispensabili per attuare processi ingegneristici che sono il contrario di quelli che avvengono nei normali cantieri navali: in questi entrano lamiere e profilati ed escono navi, mentre in un cantiere di demolizione entrano navi ed escono prodotti siderurgici. L’area di lavoro deve inoltre avere i grandi spazi necessari ed essere dotata delle  attrezzature specifiche per il prelievo e lo stockaggio delle enormi quantità di ferro che vengono disponibili, oltre ad essere posizionata in una zona che abbia in prossimità i due “centri” operativi (chimico e siderurgico) sopra richiamati, affinché sia l’asportazione e trattamento dei residui inquinanti che l’avvio al riciclo del materiale di risulta riutilizzabile avvengano

Convenzione Marpol 73-78 denominato Annesso VII, in elaborazione da parte dell’IMO (International Maritime Organization) circa la demolizione delle navi. Chiarito che non trattasi di una questione marginale, vengono esaminate le situazioni che maggiormente preoccupano sia per la protezione dell’ambiente sia per la salute e la sicurezza dei lavoratori del settore. Viene infine proposto un indirizzo per un sistema funzionale coordinato al fine di razionalizzare la soluzione dei problemi di carattere ecologico, sociologico ed economico che oggi si pongono per l’esercizio delle operazioni di demolizione navale.